Vittorio Podestà: il sogno di un oro a Rio
Paracyclingwolrd.it inizia una serie di interviste in avvicinamento alle Paralimpiadi di Rio. Cercheremo di capire meglio chi sono i nostri azzurri che, guidati dal c.t. Mario Valentini, stanno regalando alla nazione tantissime medaglie. Il primo che abbiamo incontrato è Vittorio Podestà, atleta ligure.
Buongiorno, Vittorio. Prima di tutto, complimenti per i tuoi risultati ai mondiali di quest’anno in agosto. Come prima domanda, vorrei chiederti di presentarti ai lettori.
“Sono un ingegnere di 42 anni al quale un incidente d’auto a 29 anni ha dato la possibilità di reinventarsi una vita che qualche tempo dopo è diventata quella di un atleta a tempo pieno. Sono sposato con Barbara, che ho conosciuto qualche mese dopo il mio ricovero nell’unità spinale di Sondalo in provincia di Sondrio dal 2003. Viviamo insieme a Chiavari in provincia di Genova, dove ho vissuto fin dalla nascita. Da un anno ci siamo trasferiti in una nuova casa insieme al nostro cane Pelù”.
Se dovessi sintetizzare in poche parole la tua attività e il tuo credo come handbiker, cosa diresti?
“L’handbike è uno sport inventato dai disabili ma praticabile da tutti e dimostra come si possa andare in bici o qualcosa di simile, con tutto il suo divertimento e i suoi benefici, anche in un modo diverso. Chiunque lo provi per la prima volta ne rimane entusiasta, incredulo di quante affinitàà abbia col ciclismo ma anche delle sue peculiarità uniche, soprattutto nella guida del mezzo e nel modo soddisfacente e salutare di usare la parte superiore del corpo come pochi altri sport aerobici”.
La tua carriera sportiva è costellata di trionfi e medaglie: Europei, Mondiali, Olimpiadi… Dopo tante vittorie, sarebbe facile vivere di rendita; invece anche quest’anno hai portato a casa nuovi successi e piazzamenti importanti. Che sensazioni ti da vincere? Dove trovi queste energie fisiche e mentali?
“Ho il difetto di dimenticarmi subito della vittoria appena conquistata. Se da un lato questo approccio ha la pecca di non farmela godere appieno, dall’altro mi spinge sempre a guardare alla prossima sfida. Non è stato sempre così: nel 2007, dopo la mia prima vittoria iridata a Bordeaux, è stata dura dover dimostrare di essere uno dei migliori in ogni gara. Con il tempo sono maturato come atleta e dopo il 2012 sono riuscito a gestire in modo positivo la pressione di essere sempre tra i favoriti per la vittoria”.
Qual è la gara che più di tutte ti ha dato emozioni?
“Difficile scegliere. Tra quelle importanti, il Campionato del Mondo dello scorso anno con la mia prima maglia iridata nella gara in linea, una grande soddisfazione per me: infatti io non sono un velocista e per vincere devo quasi sempre staccare tutti i miei avversari per arrivare in solitaria, ma spesso i percorsi non sono abbastanza selettivi per permetterlo. A Greenville in South Carolina, il percorso era abbastanza duro ma non mi aspettavo potesse essere il percorso adatto per una mia vittoria in una gara di gruppo: probabilmente la delusione per il secondo posto nella cronometro di 2 giorni prima, per soli 10 secondi, mi ha dato la carica giusta; inoltre perdere l’oro con un distacco così risicato mi ha fatto capire che avrei dovuto gestire meglio gli sforzi in relazione al clima, eccezionalmente caldo e umido, siccome ero arrivato molto stanco nel finale di gara. Un errore che non ho rifatto per la seconda volta. Non posso dimenticare anche l’emozione per l’inaspettata prima vittoria di un Campionato del Mondo nel 2007 a Bordeaux. Mi sembrava fosse un sogno e continuavo a ripetermi che prima o poi mi sarei risvegliato. Ricordo anche con piacere la primavera del 2011 quando ho vinto una gara internazionale tra le più classiche del nostro calendario, dimostrando tutta la mia grinta a coloro che mi davano per finito e mi avevano estromesso dalla nazionale azzurra dopo il mondiale dell’anno precedente, nel quale ero rimasto a secco di medaglie. Quella gara molto veloce e “troppo facile”, poco adatta alla mie caratteristiche, l’ho vinta catalizzando tutta la mia determinazione e la mia rabbia, staccando tutti a 17 Km dal traguardo e arrivando da solo a 39 Km/h di media, mentre il gruppo tentava invano di raggiungermi”.
Ho letto che hai sempre praticato sport a buoni livelli. Cosa ha significato per te l’attività sportiva?
“Nella mia famiglia lo sport, in particolare il ciclismo di cui mio padre era fortemente appassionato, ha sempre avuto quasi pari dignità rispetto alla scuola. Pur non essendo stato un grande agonista in età giovanile – a differenza di mio fratello che è arrivato ad una carriere dilettantistica significativa – la pratica sportiva ha sempre fatto parte della mia quotidianità. Ho provato molti sport prima di arrendermi al volere di mio padre, ma in età più matura fino a prima dell’incidente ho praticato con grande passione e divertimento la mountain bike”.
Dopo l’incidente, ho letto che prima dell’handbike hai praticato anche basket in carrozzina. Come hai maturato la scelta di ripartire da questo sport? E come mai hai deciso di cambiare ad un certo punto?
“Dopo una settimana dal mio incidente uno dei miei più grandi amici, disabile per incidente avvenuto qualche anno prima del mio, mi ha detto di sbrigarmi ad uscire dall’ospedale perché mi avrebbe portato subito in palestra a “divertirmi”. E dopo poco più di 5 mesi infatti ho potuto capire che si poteva veramente competere con i propri limiti anche dopo aver perso l’uso delle gambe. Ho imparato che il basket in carrozzina è uno degli sport che permette al meglio di parificare e far giocare insieme disabili con diverse capacità residue, dando ad ognuno lo stesso valore per il contributo nella vittoria o sconfitta della squadra. Lo stesso amico mi ha poi fatto provare la mia prima handbike ed è stato un “colpo di fulmine”. Per un paio di anni ho praticato entrambi gli sport, facilitato dal fatto che la stagione si sviluppa in due periodi diversi dell’anno, ma dal 2005, dopo la mia prima vittoria nei Campionati Italiani, ho deciso di dedicarmi completamente e “professionalmente” alla mia specialità preferita”.
Penso che esempi come il tuo e quello di altri sportivi come Alex Zanardi possano portare ad un effettivo progresso nella percezione dei disabili in Italia. Come ti trovi nei panni del “ritratto di ispirazione”?
“Non è certo per dare il buon esempio che facciamo quello che facciamo. La prima molla è la passione e il godimento che si può trarre da questi sport a livello personale. Certo, sapere di dare anche un esempio di come la vita di un disabile non debba avere per forza qualcosa in meno della maggioranza delle persone, ma anzi qualcosa in più, fa sicuramente piacere. Essere di ispirazione comunque non è un abito che mi calza a pennello perché mi sento spesso una persona notevolmente imperfetta, con molti limiti e debolezze”.
Ho visto dal tuo sito che hai numerosi sponsor che ti sostengono, anche molto importanti : può esser visto come un segno del mutato atteggiamento nei confronti dello sport per disabili, non più praticato da pochi ma sempre più presente nella società. Qual è la tua idea sulla questione? Hai notato dei cambiamenti di visione ed interesse durante la tua carriera?
“Purtroppo molti di quegli sponsor non sono più nel mio “paniere” e mi rimangono poche grandi aziende che continuano a credere nel messaggio che posso veicolare e a sostenermi. La crisi economica ha acuito la difficoltà di trovare sponsor “di peso”, nonostante i mie successi siano di anno in anno sempre migliori. Sicuramente negli anni la diffusione al di fuori degli addetti ai lavori dello sport paralimpico ha permesso l’avvicinamento di molte più aziende disposte ad investire e a credere nel messaggio “etico” dello sport per disabili, ma la maggior parte di loro è costretta a fare il calcolo tra i costi e i benefici di quest’impegno: il ritorno di immagine non sempre è abbastanza valorizzato dai mass media, a parte quando sono in ballo personaggi che vanno al di là dello sport come nel caso di Zanardi. Quindi per tutti gli sport cosiddetti minori, non solo per disabili, sono tempi duri: ci si ricorda di loro soltanto quando arrivano le olimpiadi”.
Il ciclismo tradizionale è stato funestato da numerosi casi di doping che ne hanno minato la credibilità. Nel paraciclismo sono stati riscontrati episodi simili? Credi si possa sconfiggere questa pratica?
“Premessa: Io ritengo che i casi di doping nel ciclismo siano dovuti al fatto che i controlli si facciano in maniera più numerosa ed efficace che in molti altri sport. Detto questo, considero un errore pensare che nello sport di alto livello non ci siano persone che barano: da disabili non si diventa “santi” e purtroppo i casi nel nostro mondo ci sono già stati anche se per fortuna sono ancora isolati. Noi paraciclisti della nazionale facciamo parte dello stesso ranking dei ciclisti “elite” (i professionisti) e dobbiamo dare alla comitato di controllo della Federazione Ciclistica la reperibilità per controlli a sorpresa per un’ora al giorno per 365 giorni all’anno. Inoltre molti di noi sono selezionati annualmente per poter essere controllati con lo stesso criterio di reperibilità anche dalla WADA, l’agenzia mondiale antidoping. Oltre a questo ci sono ovviamente i controlli dopogara per i vincitori e a sorteggio per gli altri. Aggiungerei ancora che da 4 anni noi atleti azzurri partecipiamo al programma del “passaporto biologio”, che ci monitora per tutti i controlli obbligatori, 4 all’anno non a sorpresa ed a sorpresa al fine di individuare anomalie “sospette” nelle nostre analisi ematiche”.
La tua famiglia (in particolare tua moglie Barbara che ti segue ad ogni gara) è stata importante in questa tua rinascita sportiva e umana?
“Assolutamente decisivo. È sicuro che senza di lei mi sarei fermato ad un livello totalmente saltuario e amatoriale di questa specialità, come fanno molti miei colleghi che si limitano a gareggiare per divertimento nelle gare nazionali promozionali come il Giro d’Italia Handbike e il Campionato Italiano Società. Barbara riesce a sostenere un grande lavoro che ci permette di poter stare per lunghi periodi lontano da casa per allenamenti, ritiri e gare in giro per il mondo, vivendo nel nostro camper. È diventata una factotum e lo fa con lo stesso impegno con il quale io mi alleno e gareggio”.
Quando devi competere per una grande gara, come ti prepari? Segui sempre lo stesso programma o vari a seconda dell’impegno?
“Ovviamente il programma è focalizzato agli impegni più importanti e l’avvicinamento prevede periodi di allenamento differenziati per quantità e qualità. I carichi di lavoro sono decisi con cadenza giornaliere e riprogrammazione settimanale dal mio allenatore Francesco Chiappero, con il quale c’è un grande rapporto di collaborazione fin dal 2011: le decisioni sono prese di comune accordo in base ai miei feedback e alle nostre esperienze di lavoro”.
E ora la classica domanda: quali sono i tuoi obiettivi per il futuro? Il tuo sguardo è rivolto a Rio o hai anche altri progetti?
“L’unico vero obiettivo agonistico non ancora centrato è l’oro olimpico ed è il mio pensiero sportivo fin dalla notte successiva all’ultimo dei tre titoli iridati conquistato quest’anno. Dopo le gare di Rio de Janeiro tirerò le somme su quanto ottenuto per vedere se scatterà ancora la “molla” delle motivazioni per continuare questo sport ad alti livelli. Sicuramente è un mondo al quale vorrò appartenere per sempre vista la mia passione e le competenze specifiche che ho maturato”.
Per puro campanilismo ti chiedo anche: ho visto che nel 2012 hai gareggiato nella mia provincia alla Piacenza Paracycling; cosa ne pensi di questa gara? Sei stato soddisfatto dell’accoglienza riservata agli atleti? Ci sono possibilità di rivederti in azione da queste parti?
“Ho partecipato a diverse edizioni della Piacenza Paracycling, per via dell’alto livello dei partecipanti e della collocazione come gara internazionale del Calendario UCI che mette in palio punti per le qualificazioni alle paralimpiadi. Solo quest’anno ho dovuto rinunciare a malincuore a causa dell’incompatibilità con la mia programmazione della stagione finalizzata ai Mondiali che, eccezionalmente, si sono disputati un mese prima del solito.
Grazie mille per il tempo dedicatomi, buona fortuna ed alla prossima! Hai un pensiero particolare che vuoi condividere con noi in chiusura?
“Beh, mi auguro di avere in voi degli ulteriori supporter per il mio obbiettivo olimpico di Rio 2016 e spero di potervi raccontare il prossimo anno altre nuove positive emozioni”.
Nicolò Rossi
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